Per esempio, la descrizione delle cose
(o del fissare il tanto caffè nero di quei giorni)
È il 1988. Il mio professore di Italiano mi ha insegnato come si descrivono le cose. Da una descrizione non emergono necessariamente i perché. La ragione per le mie lacrime non sta nelle loro tracce sulle mie guance, diceva infatti qualcuna. E così il tema ricorrente di questi ultimi dieci giorni è stato il mio dove. Dove vivi adesso, credevo che fossi a [città italiana a caso, tanto sei passato di lì negli ultimi sei mesi], c-o-s-a c-a-c-c-h-i-o c-i f-a-i q-u-i. Settemila chilometri in dieci giorni. Credo di non aver mai visto tanti bivii, tante deviazioni, tante prossime uscite come in questi giorni. L’ultimo disco degli Interpol, Antics, inizia con un pezzo che si chiama Next Exit ed è una finta canzone da finto ballo di fine anno, perfetta nel suo spirito finto altero molto pomicione. No end, no end, no end. Gli Interpol mi piacevano perché ricordano il mio primo contatto con postpunk e newvave, quando a sei anni canticchiavo senza capire Love Will Tear Us Apart con i la-lalla-la-la-la-là o mi piaceva il video dei gnuorder coi schiaffi. A proposito di balli di fine d’anno, quelli del Kalsart hanno programmato Il Giardino delle Vergini Suicide nella notte della vigilia di ferragosto, tanto sanno che non andrò a nessun falò. A Bari la segnaletica è bastarda e non ti avverte prima: se ne sta due metri avanti all’ultima uscita, pronta a gridarti alle spalle tr’mon quando la sorpassi. Ah, visto che si parlava di 1988, qualcuno avverte i Freezepop che in Italia il tema di Jem And The Holograms era diverso e vorremmo che rifacessero anche quello, nonostante la Valerimanera?
È il 2004. E capisci che stai crescendo dal regalo costoso che hai fatto a tuo fratello per la sua laurea, che a lui piace e che tu non vorresti ti fosse mai regalato. E capisci che stai crescendo dal fatto che i dischi nuovi li hai chiusi in mp3 dentro il portatile. E capisci che stai crescendo dal fatto che programmi una partenza intelligente anche se non ne hai bisogno perché vai via un venerdì mattina di fine luglio, quando gli altri ancora lavorano. +100km, +3h e dall’altro lato dell’Italia nessuno che ti fa marameo con la manina. Faccio il viaggio da solo, mentre nell’altra macchina davanti ci sono i piccioncini calabresi, anche se dopo quello che mi ha raccontato l’apulo-milanese giramondo dovrei evitare di associare le categorie ontologiche di piccione e Calabria. In macchina da solo devo cantare per tenermi sveglio, tanto che in un tratto misto vicino Genova ho rischiato di schiantarmi per l’impossibilità di cambiare cd e perché la radio andava e veniva. Arrivederci, è stato bello, Torino. Alla radio trasmettono continuamente Misread e le canzoni dei Keane sembrano un po’ certe melodie facilifacili che nei primi anni novanta cantavo quando mi lanciavo in discesa in bici. Prima dell’autogrill in terra toscana ricevo una telefonata appunto apulo-milanese che cerca di svegliarmi mentre al colmo della disperazione intono Don’t wake me up, I plan on sleeping in (l’apulo-milanese e i Postal Service sono una sorta di due rette parallele con tutta l’assiomatica connessa, dovete saperlo). Nel pomeriggio per darmi un tono e sostenermi sui tratti ad alta velocità della strada verso Roma passo dalla bossanova del nerd alla Bossanova yippie-yeh: funziona, ma siccome ormai mi è presa la ridarola, non appena vedo un’indicazione per la Casilina cominciò a cantare Casilina, Casilina. Siccome ancora la mia coscienza non è andata tutta in crescenza, il grillo parlante del cruscotto suggerisce Trust dei Low. (That’s how you sing) Amazing Grace è di una bellezza disturbante, scenografata da un pre-tramonto arancione chiaro. Savio per un attimo, ritorno sulla cattiva strada per colpa di Kanada (sì, insomma, you can sha-la-la-la-la, no?). Il dramma. Cheppalle1, cheppalle2, cheppalle3, ma davvero volevo diventare mormone, amish o quelchecacchioera? Poi arriva la nevicata del 1981 (o era 82, non saprei essere preciso). Accelero e canto, con le lacrime che mi scendono, “When we were young we wanted to die, but the sound of a drum and the words of a child brought different light. Now, no one can tell the winter was nice, but THE SUMMER IS HELL. The ground was so hard, the nights were so long, but we suffered the dark and we wrote all those songs. Still I was a fool, I covered my ears. No, I would not face the last snowstorm of the year”. Ora ricordo. La pioggia leggera sul parabrezza non richiede il tergicristallo ma rallenta il flusso intorno a me. E siccome, come diceva Anna Oxa, è tutto un attimo, storpio Point Of Disgust intrecciando una località campana che fortunatamente non ricordo con qualcosa di volgarissimo. Mentre mi dirigo verso Avellino la boscaglia umida si apre davanti a me come una replica della foresta amazzonica. La celebro con Maybe, il singolo di Emma Bunton che mi ricorda tante cose e che si parappappara che è ‘nu piacere, come conferma anche la campano-romana parappappara. Sulla via dell’arrivo, dopo le variazioni sul tema (I’d rather dance with you), quella ragazza della sera tanto simpatica di radio1 mi allieta con spiccioli retrò, mentre la città mi accoglie con Controradio e First of the gang to die. E la giornata non era ancora finita.
È il 198!!! (che se fosse scritto in un contocorrente direste millenovecentottantascicscicscic). L’apulo-bolognese futura apulo-bolognese-parigina sostiene che per lei sarebbe impossibile. Io invece passo una domenica mattina a prendermi il sole in terrazzo con Louden Up Now, agitando esclusivamente le mie estremità e turbando i vicini che inaugurano la loro nuova piscina. Per questo e altri motivi sono di nuovo in cerca di casa lì, anche se non ci abiterò per i prossimi cinque mesi.
È il 1804. Ma voi lo sapete che i treni si fermano come le diligenze dei tempi d’oro? E cambiano l’acqua e l’aria. Mezz’ora in tutto. Così si ha il tempo di portare un caffè alla calabro-fiorentina che è uno zucchero dai capelli corti e spinosi e per questo prende il caffè amaro, in evidente debito di fumo, oppressa da vicini marmocchi e dai ritardi tipici delle diligenze del 1804. E ho il tempo di farmi raccontare il concerto degli Einstürzende Neubauten di Fano. Ci rendiamo conto che siamo tornati al sud quando l’omone cattivo delle patatine schiaccia col suo enorme piede un bicchierino di carta seduto timido ai lati dei binari in attesa di essere gettato. Sulla strada verso casa lei travierà i vicini marmocchi guardando sul portatile Paura e delirio a Las Vegas: i marmocchi, credendolo un film Disney, cominceranno a drogarsi. Viva Las Plassas
È il 1983. E tengo una faccia da culo che Tom Cruise a quei tempi se la sognava. Pur essendo libero vado a visitare la nuova sede del dove-potrei-lavorare-in-futuro (okkei, avevo urgente bisogno di una connessione a internet). Subodorando la possibilità di spostarmi verso la spiaggia vado vestito in maniera, ahem, forse poco consona. Il super-capo del dove-potrei-lavorare-in-futuro è presente e ci riceve: la prima cosa che mi ha detto è stata “Ti manca solo la tavola da surf”.
È il 1976. Il cielo è basso e pieno di nubi. Le nubi rosse sono bitorzolute, increspate e lucenti. Il cielo ha un aspetto cerebrale. Sotto il cielo c'è un campo, nel vento. A lato del campo corre un'autostrada pallida. Passano un sacco di macchine. Una delle macchine si ferma sul bordo dell'autostrada. La pace intrauterina di un terrazzo in Agosto, e le stelle cadenti. Siamo i feti angelici dei Sigur Rós.
È il 3010. Fisso enormi meduse da una ringhiera sul mare.
È il 2002. La crisi delle telecomunicazioni si manifesta in tutta la sua durezza impedendomi di mettermi d’accordo con l’apulo-tedesco futuro apulo-e-basta per un saluto davanti ad un caffè. Sarà per la prossima (regalategli un videofonino, così lo sfotto). In realtà non è il 2002, perché non sono disoccupato e non posso fare da guida al campano-toscano che non ha bisogno di guide.
È il 1992, o se volete il 1972/73. Sono a un concerto di Max Pezzali. Nord, Sud, Ovest, Est. Oppure sono in uno stadio dove gioca la squadra della mia città, che è in serie A e se la vede alla pari con Inter e Juve. Almeno per una sera.
È il 1979. L’anno di No-Bari. A piazza del Ferrarese breakers svizzeri spezzano i cuori di giovani donne capitate lì per caso. Davanti al locale dove dovrei incontrare colei che potrei chiamare con un acronimo LabfabP, ma non lo faccio perché sembra il nome di un gruppo Anticon, esseri pallidi e mascarati dalla sessualità cangiante indicano la testa sulla porta. L’immagine, abbastanza cinematografica, è che lei si muove veloce alla ricerca di qualcuno o qualcosa; io le picchietto con due dita sulla spalla, lei si gira e mi saluta. Ora, io che ero con (più o meno) quindici persone mi lancio con lei in una sorta di campionato interregionale di logorrea molesta all’inpiedi outdoor. Lei mi parla di quello che farà nei prossimi mesi, io abbozzo su quello che non ho fatto negli ultimi mesi. In tutto ciò non risulto particolarmente brillante e dimentico pure le webzine che leggevo ormai mesi fa. Dopo due ore filate lei nomina Porto Cesareo e io dico, ah, lo sai, c’è la ragazza di uno dei miei coinquilini che è di Salice Salentino e spesso va, Daniela (mi giro) ti pres. Il vuoto. Mi hanno abbandonato chissà dopo quanto tempo. In tutto questo è spuntato anche Badly Drawn Boy – per lei stroncato ingiustamente da Bitchfork – , che via via che i km passavano diventava nume sempre più tutelare. Ma è l’una e io domani mattina mi sveglio alle sette per preparare le valigie.
È il 2004. Qui e adesso. Passo a trovare al mare la calabro-fiorentina dall’adorabile risata random. Mi sono esibito con lei nel campionato interregionale di ordine gemello al cameriere indoor e in quello europeo di fuga da locale non gradito prima di ordinare indoor/outdoor. Ho conosciuto alcuni suoi amici tra cui Gigi che è un calabro-parmigiano. Io ho questa cosa che tutti i ragazzi che parlano con accento emiliano e/o romagnolo mi ricordano Accorsi nella pubblicità del Maxibon. Come aggravante c’è che Gigi squadrava i culi di tutte le ragazze nel giro di cinquanta metri come Accorsi nella versione non censurata dello spot. In macchina alla ricerca di un parcheggio cantavamo a squarciagola coi finestrini abbassati la parte di Pavarotti di Miss Sarajevo, DICI CHE IL FIUME. Chiara e Marilena ci guardavano come matti. Ci sarebbero tanti aneddoti divertenti da ricordare (come quello della birra media-piccola e della pizzeria losca o come io che cerco di farmi spaccare la faccia e farla spaccare a Gigi ridendo per due buzzicone non proprio fini sul lungomare o come il tormentone dei soprannomi) ma poi ci siamo messi a giocare col bigliardino. Nel ritorno a casa abbiamo invidiato tantissimo Chiara per i concerti che ha visto nella sua vita, in particolare per i Sigur Rós (ma anche per Aphex Twin e Björk). Ho parlato molto con lei, non quanto avrei voluto. Ho anche imitato il nano di Twin Peaks per farle paura.
È il 1967. Il latte stamattina è caldissimo. Il 1967 è un anno un po’ strano, un anno di passaggio, come il tragitto verso lo stretto. Un anno in cui ci si allontana, ma io mi sento come quelli a cui il ’66 andava bene e se lo volevano tenere per sempre. In auto non ho il cd dell’estate (non fatemelo chiamare nastrone il cd, non ci riesco), ho quello masterizzato per la primavera a Milano con Sun A.M. dei Moonbabies, ma gli preferisco quello di Natale per le colleghe. Il traffico rallenta quando mi immetto nella SARC. Accanto a me tre mezzi pesanti trasportano enormi bombole di gas. Credo sia elio. Abbasso il finestrino per mitigare l’aria condizionata, bevo un po’ di succo d’ananas, mangio un plumcake. Parte la traccia numero due, chiudo gli occhi e canto, tanto da qui non mi muovo, anche se per troppo poco tempo. “It’s all the streets you crossed, not so long ago”.
È il 1990. La prima volta su un traghetto per casa. Con numero due valigette di cartone per i computer portatili attraverso a ritroso lo stretto. Scatto molte fotografie attirando l’attenzione di un gruppetto di turiste tedesche fanatiche delle macchine da presa. Una di loro approfitta del posto libero sulla ringhiera accanto a me per trovare un buon punto per la sua videocamera. Sussura sottovoce frasi in tedesco al microfono. Se sapessi il tedesco o se mi importasse qualcosa di lei le chiederei il senso di tutto ciò. Invece mi beo nel vento e nell’aria dolce che mi circonda. E colgo l’occasione per dirlo qui, ho sempre trovato Silent Sigh una canzone che mi spinge a ballare ovunque e comunque mi trovi, forse perché quel piano inizia triste e si arrotola su se stesso come me quando non riesco a dormire nell’afa ma poi cambia e poi a metà ci cadono sopra tasti dolci e teneri e alla fine mi ricorda More than a woman dei Bee Gees e i trilli ascendenti degli Abba. E quando dice “people moving to the moon” non parla degli astronauti che vanno sulla luna, ma di noi. Così, mentre la canticchiavo in testa, ballavo un po’.
È il 1966. Purtroppo no, non ostante il film sullo schermo di stasera lo lascia intendere. Piccoli pipistrelli estivi ombreggiano donne francesi bellissime. Sono felice perché forse riuscirò a vedere almeno i Kings Of Convenience: il programma su internet dice no, il volantino dice sì. Niente Liars, ma potrei scacciare quella maledizione che mi fa perdere tutti i concerti delle estati della mia città. Nel 2014 in tre giorni sarò in quattro città: Palermo, Bari, Roma (scalo), Torino. Per intanto mi addormento cullato da una terza canzone senza titolo, che addolcisce i vuoti che da sempre mi sono intorno. A volte non basta essere nati su un’isola.
È il 10 agosto 2004 e molti credono che chi vive nella velocità non si attacchi mai a niente e a nessuno. Invece ci si è dentro fino al collo e si conoscono i perché delle proprie lacrime e a volte basterebbe solo essere da un’altra parte per farsi cantare “And you will dry this tear now that we're here, and grieve for me, not history”. Possibilmente nel remix con l’intro tirolese degli Avalanches.