11.5.04

Restituzioni prospettiche

Nella camera che ho qui ancora per un breve tempo non ho una porta. Ho una scala a chiocciola. Presente il set di un film, dove le mura arrivano fino a un certo punto con tutto il loro (sovrac)carico di domesticità? Menti sofisticatissime erano alle prese con uno studio del meccanismo architettonico che mi avrebbe garantito un privato anche per quei pochi minuti che passo lì di notte. Paraventi, tende a soffietto, ologrammi personalizzabili cantavano l’elogio del fisher e del computer aided design. Poi abbiamo rimandato tutto.
Il disco di Adem è l’equivalente sonoro di tutto ciò. L’ho capito andando sul suo sito/camera aperta. L’ha chiamato Homesongs e quasi tutti sono andati oltre il casalingo, definendolo un disco da cameretta, ma il senso del disco non è quello, non solo. Per questo abbandono subito la metafora da arredatore d’interni, risparmiandovi il parallelo sulla mobilia che mi era venuto in mente confrontando Homesongs con le prove di Kieran “4Tet” Hebden, compare di Adem nei Frigorifero. Vade retro sonorizzazione di interni.
Mi concentro allora sulle impressioni dei primi ascolti, in seguito polarizzati dal circolo tracce5-6-7, capace di avvolgersi su se stesso per minuti e minuti consecutivi fin quando qualcuno correva in nostro aiuto chiedendoci di apparecchiare la tavola. Un, due, tre: stella! Si comincia, anche se è facile inneggiare a un’immobilità statuata quando c’è, beh, quando c’è la pioggia. Ringin’ in my ear rallenta il vento della domenica pomeriggio sul terrazzino fino a renderlo brezza, di quella fresca che tu non ti accorgi del sole sopra di te e poi ti bruci il naso. La supermodella con cui stavamo insieme fino a ieri oggi ci ha lasciato per sfilare l’autunno/inverno 2004 sotto i cinquanta gradi, da qualche parte in California o a Kobe. In Cut la pressione non vuole separarsi dalle corde. Niente sorprese provengono dagli amici in These Are Your Friends che sembra fatta apposta per chiudere il concerto col suo crescendo iterativo finale di quelli che alla fine tutti urlano, anche quelli che sono lì per caso. L’inno a cosa è necessario nel trasloco tra camerette è seguito da quello al passeggero che ti tiene sveglia mentre guidi, fissando la strada in vece tua, con la radio rotta e l’assenza di passato, seppur prossimo, come elemento di conversazione. Pillow invece è troppo programmatica per essere soporifera. Ehi, io sono qui! sceglie volutamente di non farsi notare? E There Will Always Be inizia come una di quelle canzoni che Björk metteva al centro dei primi dischi solisti, scarna e accartocciata, voce e organetto e arpeggio e poco altro. Una porta aperta che però, per necessità di compiutezza, Adem alla fine socchiude.