A Paola
E tu hai mai visto in concerto il tuo gruppo preferito? Io sì. E potrei chiudere qui con Milano, col sole che mi splende sulla testa e i milanesi che ancora non si sono resi conto e camminano imbacuccati con le loro sciarpe e non sanno che quella brezza non farà venire loro il mal di gola. Niente festa d’addio, niente ape-ironY, niente rimpianti. Ma prima vi racconto com’è andata.
Io ero lì. Ero lì con Enzo e La Laura di Polaroid, ammirevoli. Quando mi hanno avvertito al telefono del loro arrivo credevo di essere alla radio e stavo per chiedere una canzone, magari una di quelle che avevano sentito in viaggio. Incrocio le dita per il regalo che mi stanno cercando di fare. Ero lì con Giulia di Storie, che nelle poche parole concesse dal limitato tempo pre/post-concerto mi ha dato l’idea di una ragazza dolce e garbata. È stato buffo accorgersi con lei di come tanti nel mondo dei blog siano ricercatori. Ero lì con Valeria Pulsatilla e il suo Piero che potrà rinfacciarle questo concerto per i prossimi cento anni. Ero lì con quelli che i blog non li hanno e che ricordo tutti insieme con quel pirata di Lucio che ha registrato il concerto.
Prima dell’inizio uno strano insieme di persone sul palco si esibisce in qualcosa di completamente scorrelato dal resto della serata. Davanti a noi un tale si fregia di una maglietta dei Jethro Tull scatenando la nostra ilarità. Lo spilungone di prammatica arriva a un secondo dall’ingresso dei Belle & Sebastian e non scatena certo la nostra ilarità. Attaccano con uno strumentale. Ne faranno due, il secondo nei bis. L’andamento un po’ surf, un po’ mex mi suggerisce il battutone “Ma poi faranno anche Apache degli Shadows?”. Poi cominciano con Expectations. Le canzoni filano senza sbavature, con una scaletta che predilige i pezzi dalle ritmiche andanti e non trascura dischi ed EP, se si eccettuano gli abbozzi di Storytelling. La nuova violoncellista fa il suo mestiere, mentre Sarah conferma l’idea di essere una transfuga della Kelly Family, con tanto di flauto modello scuola dell’obbligo. Nel coro un clone di Tarantino attira l’attenzione di Enzo. Tutti si scambiano gli strumenti e tutti cantano: Murdoch è rispettoso delle sue canzoni e non le storpia come i cantanti che sentono il peso degli anni. Jackson assolve il suo compito, concedendosi una virata à la Elvis in The Wrong Girl.
Negli intermezzi qualche parola in italiano, autoironie sulle poesie riempitive e gli immancabili complimenti al pubblico di (guarda dove sei dietro la chitarra). Chiamano pure sul palco una ragazza per fare da traduttrice e, se non fosse per la piega comica presa dallo cosa, si avrebbe la spiacevole sensazione di una trovata alla U2. Lode comunque a Paola che esibisce un verde dal taglio anni Sessanta che sembra uscito dall’armadio di mia madre, impipandosene della copertina cowboy di Vanity Fair. A tal proposito verrebbe da chiedersi cosa fanno nel resto dell’anno le ragazze che sono lì al concerto: saranno sempre così attraenti nella loro polverosità, staranno lontane dai luoghi che frequento o si lasceranno andare indossando anonimi tailleur aziendali? E le canteremmo Step into my office, baby? A tutte tranne alle due che, ballando davanti a me solo per una canzone prima di spostarsi, hanno vendemmiato i miei piedi.
Nel frattempo l’unica canzone inedita si avventura su melodie e ritmi brazileiri in maniera obliqua. Fox In The Snow spicca come raro pezzo lento e soffuso, col pubblico che rispettoso non canta, mentre per tutto il resto del tempo aveva battuto mani, schioccato dita e ripetuto strofe e ritornelli. Anche le luci diventano morbide, rispetto al resto del tempo in cui l’estetica dominante è stata quella degli anni Ottanta. È sembrato infatti che Trevor Horn abbia avuto più influenza sulle luci che sui suoni. Colonne catarifrangenti prese da tir nascondevano cursori verticali. Laser freddi hanno robotizzato ove hanno potuto. E quando Enzo ha proposto a La Laura di salire sulle spalle per vedere meglio, tutto rimandava al Festivalbar del 1983. Il primo finale ha esaltato tutto questo nella splendida accoppiata tra Stay Loose, sublime tentazione che poteva essere più assecondata nell’ultimo disco, e la mia Sleep The Clock Around, ornata di sintetizzatore sul finale. Un tizio lì accanto se n’è uscito con un “A Superclassificashow ci sono, i Belle And Sebastian”, detto con tenerezza. Se avessero aggiunto anche Electronic Renaissance, non avrei saputo rispondere di me. Il pubblico in visibilio li ha richiamati per tre pezzi, ma tutti avrebbero voluto ancora di più, inediti, cover, cori pseudosudanesi. Si esce e ci si chiede cosa leghi i Belle & Sebastian alla distribuzione di campioni di profumo Cerruti. Le magliette non sono un granché, meno male che per me arriva la spilletta di Polaroid. Poi sono tornato con il 60 e col 33. Vi ho già detto che sono stato al concerto del mio gruppo preferito dove la domenica precedente avevo pestato i piedi alle ragazze che ballavano lì salsa, merengue e bachata? Ma non scandalizzatevi. A Milano splende il sole, Stuart Murdoch ride e io ho visto il mio gruppo preferito dal vivo.
Ah, se ne parla anche da Polaroid, Trentesimo Anno e Euston Station