7.6.04

Fake french can be just as good french (but you, Justin, don’t know)

Ci sono molti gruppi e dischi che non conosco dolosamente per le cause più disparate. Una di queste sono i nomi. Ne leggo nei giornali, ma poi io non so. Uno di questi era il fenomeno El Guapo. Sono andato così alla cieca alla data torinese che ha chiuso la stagione dell’Hiroshima Mon Amour, tanto che quando ho cominciato a lamentarmi al banchetto delle magliette per la presenza esclusiva di small evidenzia-costole, sottozero al primo lavaggio, o di tende canadesi ics-elle, buone per eventuali festival di quattrogiorni di pace, ammore e musica o come inutili pigiama bipersona, non sapevo di avere di fronte Justin Moyer. Per inciso, Justin ha la finta sindrome di Touring so anni ottanta solo sul palco (lo so che dovrei dire Tourette, ma poi non so).
Nel preconcerto il blogger che non sbagliava candeggio ricorda di quella volta che non andò dal trichecone con la camicia coi baffi. Subito dopo scopro che la piaga dell’ingegneria colpisce anche insospettabili (Coniglio Cattivo distribuisce ai centri stampa del Politecnico false dispense con la dimostrazione sbagliata del teorema di Heine-Cantor). Con Enzo-nel-cielo-col-diamante (a proposito, mi scuso col diamante per la gaffe sullo snobismo) discuto dello strano andamento dei concerti torinesi a giugno/luglio, concentrati in settimane separate da nulla. Nessuno di loro sembra intenzionato ad andare a Imola e pure a me sta venendo qualche dubbio – toglietemelo.
Davanti al palco davvero poca gente, anche se comincio a notare che anche qui esistono i presenzialisti. Una ragazza sembra indispettita accanto a un ragazzo e non applaude mai. Poi arriva Claudio Lippi, stringe mani un po’ a tutti e segue il concerto di fianco a me (in realtà scopro solo dopo che trattavasi di Max Casacci dei Subsonica e non di Claudio Lippi). I guappi vanno in scena.
Forse sono davvero dei tasci (o dei cozzali, o dei maragli, o dei ta(ma)rri, o dei coatti, fate voi). Forse sembrano vicini di casa dei Chk Chk Chk, quelli che hanno preso il nome dal testo di una canzone di Yello. O forse sono tutto questo per un solo venerdì sera, ma io non lo so. Le litigate col fonico a ogni intermezzo sembrano siparietti studiati e d’altra parte Rafael Cohen ha un po’ il physique du role da sit-com. Moyer compila il modulo d’ammissione nei Planet Funk (o nei The Servant) mentre Pete Cafarella sembra tanto il tastierista degli Almamegretta, versione svolta dance. Io mi diverto, per carità, e assecondo il facile miscuglio di cassa quattro, bassi da sculettamento e tastiere che sembrano pubblicizzare la successiva sezione di techno dura della Notte Bianca torinese al Balon. Il pubblico non si muove quasi, a differenza di qualcuno di vostra conoscenza che comunque si trattiene per buona creanza. Just Don’t Know e la sua citazione chiudono (ovvio che non è vero, dopo c’è l’ormai consueta pratica del doppio bis). L’ascolto in auto di Fake French e poi non so.