10.3.04

Delusioni annunciate

Non è stato come quello. Lo prevedevo. L’ho intuito quando alle ottoemmezzo è salito sul palco un residuato del grunge del quale non ho ben capito il nome. Due signore sulla quarantina, o forse solo trentenni che portano male gli anni, mi hanno chiesto con testuali parole “Scusa, ma è lui Damien Rice”. Poi Josh Ritter ha detto di essere in Italia per la prima volta, ma non c’era anche lui l’altra volta? Josh Ritter se la ride con la sua giacca artatamente consunta, nella cui tasca frontale tiene una penna come un ragioniere e non si sa bene perché. Josh Ritter se la ride mentre un tipo probabilmente irlandese alle mie spalle urla le sue canzoni e si sente chiedere se is your brotha? da una ragazza lì accanto. Josh Ritter se la ride e chiede della festa della donna e riceve in risposta che deve fare uno stiptease. Josh Ritter se la ride e interrompe una canzone per fare urlare il pubblico. Josh Ritter non se la ride più quando prende una chitarra bucata e canta sul bordo del palco, pretendendo silenzio, senza microfono e senza amplificazione, una canzone che ha scritto per Johnny Cash. La meno interessante di quelle succedutesi fino a quel momento.
Lo capisco anche dal maglione patchwork di Damien Rice che non è serata? Saluto Lara che l’altra volta mi ha dato un passaggio in macchina. Il concerto mi coinvolge poco. I suoni sono molto più pompati dell’altra volta, soprattutto la batteria. Si sa che quando il materiale è poco si stiracchiano le canzoni, ma dove l’altra volta si intuivano possibilità o si intrecciavano canzoni altrui troppo diverse o troppo simili alle proprie, questa volta si ha una sensazione di posticcio. Come la fine Neubautenica di Amie su cui spunta persino una cassa da discoteca ottenuta dall’autocampionamento della chitarra, strumento digitale di cui Damien spesso ha qui abusato. Lasciamo perdere la paralisi rivolta al cielo durante tutto il casino. Quasi si ringrazia il troncamento come da disco di The Blower’s Daughter.
Più negativo è però un altro aspetto: la scaletta. Mentre nel concerto di Novembre i pezzi si susseguivano creando picchi e avvallamenti, questa volta le canzoni si sono affastellate in maniera disordinata. Lisa Hannigan poi interviene con grazia, ma non compare più dal nulla e anzi te la vedi che si fa le facce col bassista (il bassista è andato avanti per quasi due minuti così), mentre davanti Damien è impegnato in tutt’altro. Niente bicchieri di vino sul palco, niente storielle assurde a introdurre le canzoni, se escludiamo la geniale (e credo involontaria) introduzione ad Amie: “ho mangiato una mozzarella di bufala” sembra la solita tiritera sul buon cibo italiano, ma poi richiama la ragazzina col cappotto rosso di Schindler’s List, dice che questa canzone è su una strana persona che spunta all’improvviso e, coup de theatre, la ragazzina di Schindler’s List è come la mozzarella di bufala e lui dedica la canzone alla mozzarella. Poi la storia del formaggio viene ripresa per il gorgonzola.
E la violoncellista stava male per colpa dell’insalata tedesca e se n’è andata via prima della fine e ho visto in anticipo che avrebbero fatto solo due canzoni per bis, come da gesto da pallavolista di Lisa. E fine del concerto in tempo per tornare con la metropolitana. Se dovessi insomma descrivere la serata mi verrebbe in mente un’uscita infrasettimanale, di quelle in cui ci si trattiene perché un tuo amico è troppo stanco o perché domani si deve svegliare presto. O anche la seconda volta in cui stai con una ragazza con cui ti eri lasciato e la prima ti era sembrata speciale. Ti viene il dubbio se davvero fosse speciale. Meno male che la chiusura con l’Hallelujah alla fine di Cold Water mi ha risollevato.