3.1.04

E un cartoccio di ghiaia per il bambino

S: I'm responsible for nineteen of the twenty top-grossing films of all time.
B: Nineteen?
S: The one about the kid, by himself in his house, burglars trying to get in and he fights them off? I had nothing to do with that one. Somebody sold their soul to Satan to get the grosses up on that piece of shit.

Nell’oscuro della mia tonalità cammino nel tuo paesaggio.
Rami spezzati mi fanno incespicare mentre parlo.
Solo perché lo senti, non vuol dire che sia lì.
Solo perché lo provi, non significa che sia lì.
C’è sempre una sirena che canta per te fino a farti naufragare.
Stai lontano da questi pezzi rock, vorremmo essere un disastro che cammina.
There There - Radiohead


Di seguito cerco di spiegare perché ritengo che, pur essendo un disco sufficiente, Hail To The Thief non mi ha convinto sul piano delle istanze, delle scelte musicali, dell’innovazione. Come ho detto altre volte, la mia opinione non è del tutto negativa, ma qui sotto mi lascerò andare un po’ oltre le righe, un po’ per darmi coraggio e un po’ per bilanciare gli eccessivi inni al capolavoro.
Hail To The Thief arriva (forse? speriamo?) a chiudere un ciclo nella storia dei Radiohead. Lo scontro uomo-technè ne è stato il tema portante da OK Computer in poi. In OK Computer la reazione dell’individuo era almeno tentata attraverso il divincolarsi rock e una tristezza ancora umana . Nel duetto Kid A / Amnesiac le macchine prendevano il controllo e l’individuo subiva inerme la sua spersonalizzazione. In Hail To The Thief lo scontro invece risulta irrisolto tanto dal punto di vista estetico (o cosmetico?), quanto da quello della sostanza: c’è un po’ di tutto, anche nella stessa canzone, quasi che si rimetta in discussione il risultato della partita. A sentire Thom Yorke pare invece di no. Il suo canto salmodico e monocorde oscilla tra la sconfitta remissività e la vaga insoddisfazione e quello che paga in tensione sembra sproporzionato rispetto ai risultati che porta a casa.
Contrariamente a quanto si dice in giro Hail To The Thief non è un album politico in senso stretto. Si susseguono piuttosto immagini fratturate verso cui Yorke punta il dito. Con l’avanzare del disco però gli oggetti della sua paranoia diventano sempre più ellittici e ci si chiede se il dito non si sia anchilosato, se si sveglia nel sonno per chiamare i call center delle multinazionali e dell’azienda municipalizzata per l’acqua potabile. In una canzone lui ci mangia tutti, nell’altra viene mangiato da lei. Non sono attento, non sono abbastanza attento e a lui non ci piace e mi spara fin dall’inizio con la pistolina laser per bambini alla fine di 2+2=5. Non dico che mi manca quell’espediente ormai sorpassato della coesione, ma cacchio, abbiamo sacrificato il wit (non mi viene una traduzione adatta, sorry) sull’altare dell’assurdo per ottenere immagini sempre più grottesche. E poi, francaciampemente, non si capisce come si possa ancora citare Orwell in tema di controllo delle masse e derivati come in un qualsiasi saggio breve per l'esame di maturità, oggi che non lo fanno più nemmeno il garante della privacy e Gasparri. E alla fine di questa disquisizione sulla poetica dei Radiohead aggiungerei un altro interrogativo, citando Cher: dov’è l’amore? Ce ne fosse una di canzone utile ad alleviare le vere pene del techno-geek. A sentirlo tutto di seguito mi viene voglia di scendere per strada e palpare un culo come reazione non violenta di sdegno (okkei, forse è meglio che rimetta su il disco di Daniel Johnston, dottore).
Potrei trovarmi nella situazione in cui non condivida il tema del disco, come lo si affronti o come lo si descriva. Poco male, la musica a volte permette di superare simili ostacoli. Hail To The Thief però è discontinuo e traditore anche sotto questi aspetti. La tanto decantata voglia di ricerca e sviluppo è stata ben definita da non ricordo chi come geniale capitalizzazione di buone intuizioni. A parte l’ironia della sorte del termine capitalizzazione, non si capisce perché se Bjorka (non voglio giocare il colpo basso chiamando in causa Madonna) prende in prestito le musichine ora dal giro del Wild Bunch, ora da Deodato, ora dai Matmos è in crisi di creatività e monta la panna in studio (Myxomatosis?), mentre i Radiohead reinventano la ruota rubacchiando nel catalogo Warp, tra i gruppi prog anni ’70 e nella discografia degli ultimi Talk Talk (e di Mark Hollis) senza passare nemmeno per paraculi alla, chessò, Fatboy Slim. Per me però che ritengo sopravvalutato il concetto di originalità e che sono pure per l’abolizione del diritto d’autore, queste sono cose di poco conto. I Radiohead portano alle masse quello che il tempo o il mercato non è riuscito a regalare loro e quello che importa alla fine sono le canzoni, non necessariamente le belle canzoni.
E passiamo infine a loro. A 2+2=5, per esempio. Musicalmente uno dei migliori momenti del disco, se non fosse per il testo e perché in realtà secondo me sulla parte più danzereccia Yorke urla ‘Penetration, Penetration!’. Sit Down, Stand Up quando inizia a incasinarsi e poco prima dell’ingresso della ritmica rock mi fa venire voglia di ascoltare i Mouse On Mars sulle cui canzoni Thom Yorke non ripete “The Rain Drops” (o forse “The Raindrops”?) 47 volte. Non faccio battute stupide e piuttosto mi chiedo il perché di quella presa di fiato tra la sezione da 8-8-7 e quella da 8-8-8. Sail To The Moon sarebbe anche da brivido nel suo abitino usato da Pink Floyd (almeno evitate il riferimento alla luna però), ma col solito fare patetico, anche se melodicamente gradevole, Thom prima si professa angelo scacciato pure dal raggio di luce lunare su cui stava scappando dalla terra e poi si rivolge a suo figlio con un ‘know right from wrong’ degno di Orietta Berti in Futuro. Tra l’altro, non per labrancheggiare, ma il filo che lega Orietta Berti (e il Quartetto Cetra) ai Pink Floyd è davvero sottilissimo e inquietante. Il trittico iniziale è anche buono volendo e solo occasionalmente freddo, ma Backdrifts (sottotitolo: Frutta Marcia ci sarai tu) comincia a sollevare l’impressione del contorcimento fine a se stesso, quasi che i Radiohead provino di tutto, dalla fanfara in tempo dispari alla batteria squaccherante dell’amica di Nonna Speranza, solo per mettere in fila soluzioni diverse non uguali alle precedenti. Non a caso la paranoide androide Go To Sleep inizia proprio con le chitarre acustiche strummate che finora mancavano all’appello. In Where I End And U2 Begin, peraltro uno degli episodi più godibili soprattutto all’inizio quando Thom non piagnucola troppo, i Radiohead si avventurano sulle strade della California notturna e desertica imbracciando il basso come un fucile tedesco e tenendo in tasca un’immaginetta di San Quint-Eno. We Suck Young Blood, il pezzo più frignone, quello dell’applausometro sulle navi negriere e dei funerali (aggiungere aggettivo ad libitum), ad un certo punto si imbizzarrisce inspiegabilmente e Thom Yorke pronuncia uno Yeah con una voce che non sembra nemmeno sua. Di seguito Thom viene posseduto dal fantasma di Flat Eric e la coincidenza mette davvero i brividi se si pensa che il pupazzetto giallo era ritratto sempre in macchina e The Gloaming descrive proprio i vagabondaggi automobilistici notturni di Tommy. I Will dura poco e fortunatamente non impedisce l’eventuale ritorno all’ascolto di Fake Plastic Trees. A Punch-up At The Wedding dal punto di vista musicale è fuori dal disco col suo incedere blackxploited butterato, una sorta di file div-x di “Black Zombies And Funky Days Are Back Again”. Myxomatosis scomoda addirittura Energia di The Trip di cui qui ci ricorderemo in due o tre: no, dico, cosa dopo, il jingle del Dipartimento Scuola Educazione? Scatterbrain avrebbe potuto essere la canzone più bella della loro discografia da tre dischi a questa parte, ma l'hanno consapevolmente imbruttita con degli incomprensibili incupimenti discendenti della melodia, solo per renderla più complessa. Si chiude con A Wolf At The Door col suo incedere da lento un po’ anni sessanta un po’ inno della mala, insomma un tributo a L’altra faccia del padrino che mi lascia con un tremendo interrogativo: devo davvero prendere un pizzico di sale e chiamargli un dottore? ‘So I’m just gonna (uhhhhh)’ però è così Things that make you go hmmm.
A parte gli scherzi, musicalmente i Radiohead mi sembrano davanti a uno specchio, si cambiano continuamente i (loro) vecchi vestiti usati, indossando ora il fiore all’occhiello, ora la mascherina sterile. Non sono contenti del risultato e cambieranno ancora gli abbinamenti finché si accorgeranno che stanno slegando l’effetto dalla struttura che vuole crearlo. Questa volta sono io che mi sono costretto ad ogni ascolto completo di Hail To The Thief. La prossima volta potreste essere voi. Sit down, stand up.