23.12.03

Palermo, I’m Yours

Ecco perché aspetto fino all’ultimo. Ecco perché non dico i miei migliori dischi dell’anno finché non passa la mezzanotte del 31 Dicembre. Non perché per Santo Stefano escano dischi imperdibili o l’album natalizio del tuo gruppo finlandese preferito. Forse nemmeno perché non ho sentito tutti i dischi che mi mancano per spargere come molliche di saggezza quelli che sono poi soltanto i miei ascolti più compulsivi. Capita spesso però il disco che nell’ultima settimana ti assale alle spalle, proprio quando sei convinto che ormai quello che ti è capitato tra le mani potrà essere buono al massimo per Gennaio, il mese in cui poi non devi uscire se vuoi arrivare uno in queste classifiche.
The Decemberists così arrivano a Dicembre con la loro bottiglietta di Orangina. Sdraiato su un letto familiare, il primo ascolto di Her Majesty The Decemberists dice solo una cosa: monopolizzerò la fine del tuo anno. Colin Meloy scandisce le sillabe conscio di pronunciare parole difficili. L’inizio del disco ti marcia contro in un’atmosfera spettrale, con una benda sull’occhio, ma la nebbia viene subito dissipata dal summer wasting di Billy Liar, che cita uno Schlesinger in cui recitava Tom Courtenay, lo stesso di The Loneliness Of The Long Distance Runner, lo stesso a cui gli Yo La Tengo dedicarono l’omonima canzone. Suona qualcosa di familiare nel suo swing, così come nell’odio-amore per le città in cui passo anche solo cinque minuti, descritto bene dalle sviolinate disco metropolitane per L.A. (Ellei, Ellei. El Ellei. Ellei). Poi sette minuti di ginnastica: per due minuti Colin passa il gesso sulle mani e poi è tutta una capriola, un doppio salto e una caduta e la ripetizione in cerca della perfezione.
Lo scapolo non aspetta la sposa mentre tutt’intorno chitarre, vibrafoni e organetti luccicano, illuminando un quadro di Duchamp. La canzone per Myla Goldberg poi a un certo punto si inerpica in un assurdo funiculì funiculà che mi confonde su cosa farò giorno 7 Gennaio alle 9 quando probabilmente mi risuonerà in testa davanti ad una certa persona che non vi sto a dire. Poi non so se ridere di più della parola bombazine, che potrebbe andare bene come nome per una webzine contro le altre webzine, o dell’uso ironico della tromba. Subito dopo Colin, voce e chitarra nell’episodio più nudo e sofferto del disco, non perde l’occasione per nominare ventricoli e assonare zii e caviglie. Quindi in un miscuglio di fisarmoniche, chitarre pulp e spazzacamini mette una minigonna piena di frangette a Dickens con tutto quello che può conseguirne.
Se non si fosse capito già abbastanza quest’amore per il palcoscenico, incurante del risultato e tutto sospeso tra comica del linguaggio, teatralità della pronuncia e dramma del gesto, Meloy lo mette per iscritto in I Was Meant For The Stage. As I Rise però chiude male il disco, proprio sotto questo punto di vista. Alcuni dicono che Her Majesty non è un granché rispetto al precedente: devo allora correre a recuperare un capolavoro?