Deflorazione
Penso che si sia capito che la settimana scorsa è per me stata molto dura. Non contento delle tredici ore di lavoro giornaliere in vista di una scadenza – alle quattro ore di sonno c’ero abituato – ho chiuso degnamente la settimana nella serata di venerdì. All’Hollywood. Dev’essere un momento di crisi, visto che grazie ad un decreto del ministro per l’industria i buttafuori di Corso Como sono stati riconvertiti in spingidentro in modo da non danneggiare la già barcollante industria della creatina e dello steroide. Non si accorgono che, nel luogo che una volta fu di calciatori e modelle, ora strattonano all’interno giovani indie-blogger infiltrati che non hanno più nemmeno bisogno di travestirsi e di togliersi i loro pantaloni fuori moda per un posto in paradiso. All’interno un tizio, al quale da piccolo deve essere caduta una bottiglia in testa, spruzza coca cola con una doccia che sembra da poco staccata dal bagno di casa. Il bicchiere andrà ad una frangetta asimmetrica in libera uscita da un ufficio o da un’officina. Il giovane indie-blogger, che nel gruppo degli infiltrati è considerato quello che capisce di musica ma non riconosce dall’intro Hotel California, risponde ai colleghi sciorinando una frase forbita come “questa sera ha un nonsochedibalearico” che non sarà mai sentita per colpa delle sirene che gridano ogni 3x2.
L’infiltrato balla. Certo, riconosce citazioni da Long Train Running e brandelli di Blue Monday, ma sulle note di una tamarra versione in cassa dritta di Obsesion degli Aventura solleva il braccio della superiore aggregata al gruppo e le fa fare una piroetta. Poi fortunatamente i savi colleghi decidono che nell’Hollywood non ci metteranno mai più piede e spingono per andare via, proprio mentre il giovane indie-blogger notava che a differenza del passato l’hip hop ora arriva quando l’ambiente si scalda. Si esce alle due, si va a piedi, si parla di quante volte lei ha visto Bridget Jones con la superiore e si arriva a casa alle quattroemezza.
Mi sento sporco e ho bisogno di rigore teutonico. Forse andrò a vedere mercoledì l’omonimo Maximilian Hecker e Barbara Morgenstern, che si chiama col nome che mia madre avrebbe dato alla sua prima figlia. Forse ci andrò, nonostante Hecker mi sia sempre sembrato un po’ troppo mieloso e nonostante vogliano venire con me mie colleghe che si romperebbero le palle. L’importante è che non farò confronti.