Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito – e comincerà qualcos’altro
Prendo tempo. I rari momenti nella camera hanno la porta chiusa e l’appartamento diventa una specie di monolocale (o secondo la definizione cuginesca più appropriata, bucolocale) con le nicchie condivise in cui ci si incrocia raramente perché abbiamo orari diversi, uno lavora, uno è matricola, uno rischia di partire per il militare e io sono quello che non sa cos’è un mandrino ed è lì lo stesso forse perché quella volta mi è saltato in mente di andare al colloquio vestito a puntino ma con scarpe quasi da jogging (non lo erano) e capelli più lunghi di adesso. Ora ci hanno pure detto che dobbiamo tenere un diario settimanale e ci hanno dato dei biglietti da visita che progettiamo di distribuire ai tassisti di Piazza Duomo, agli avventori dei locali osée di Piazza Diaz (locali della cui esistenza so esclusivamente perché ho preso un autobus lì vicino) e alle coppiette che ieri erano sedute ai bordi della fontana zampillante davanti al Castello Sforzesco, con l’armonia rotta soltanto dalla presenza sul bordo mia e delle sentite, pardon, ascoltate delusioni amorose-amicali della ragazza cefaludese, che sarà anche una rompicoglioni ma se le becca proprio tutte lei e ieri sera ha ordinato una creppes e ce ne siamo andati via senza che le fosse arrivata per motivi che ancora adesso non si capiscono, mentre a noi altri la birra è arrivata subito.
È tragico ed è vero. Ieri mattina invece pulivo i vetri della mia finestra e uno dei miei coinquilini litigava con la sua ragazza nella stanza accanto, forse perché le aveva detto che voleva presentarcela. Ma che cazzo me ne frega di socializzare, urlava lei e di seguito altre urla che non riporto. Mi sono sentito come quei bambini i cui genitori stanno per non volersi più bene e ho alzato il volume del portatile che ha degli altoparlanti più gracchianti della radio degli eroi di Hogan. Lei è da due giorni barricata in camera e se ho ben capito di solito passa i week end qui ma con la presenza scenica di un musicista elettronico della seconda metà degli anni Novanta. Almeno però l’ho incrociata in cucina mentre andavo a stendere la camicia azzurra: tra le mie congetture c’era anche quella per cui il mio coinquilino, novello Anthony Perkins, fosse la sua fidanzata incazzata.
Artic Room inizia come un pezzo old school. Qui tutti abbiamo scheletri nell’armadio. I miei colleghi mi hanno scambiato per un giornalista musicale specializzato in pettegolezzi e alberi genialogici o genialoidi perché ho raccontato qualcosa del blog al colloquio di gruppo con le scarpe di gomma e poi ho parlato di musica con qualcuno di loro e poi mentre mangiavamo il gelato dal Mac Donald ho fatto notare loro che Mac Donald ha una radio e ho spiegato loro che un panino a Napoli ha la stessa musica di un panino a Bergamo, un po’ come la quantità controllata di acne sulle gote delle cassiere/cameriere. La ragazza cefaludese per esempio è intonata ma per il momento canta soltanto la nuova canzone di Dido. Un’amica di una delle mie colleghe, che lavora all’IBM, ha studiato dizione ma non per recitare. E qualcuno di loro non vorrebbe andare all’Old Fashion come dice di voler fare. E io non ho detto loro l’indirizzo del blog. Come diceva la saggia, non cè, non cè.
Ah, se non si è capito ho in heavy rotation The Books e Casiotone For The Painfully Alone.