Quanto c’è di nuovo in cucina?
Dopo la celebrazione degli anni Sessanta, per i Belle & Sebastian adesso viene il tempo dei Settanta e degli Ottanta: tra due o tre anni chitarroni grunge? Comincio con una cattiveria perché da buon fan sono dibattuto tra l’orrore dell’imbolsimento di uno dei miei gruppi preferiti di sempre – non finirete mica rugosi e grassocci su un palco a presentare un vostro non più abbastanza inutile nuovo disco tra effetti speciali e statue volanti in grandezza naturale dei Velvet Underground? – e l’ansia vorace e anche un po’ cieca dell’ultima dose, ma che sia fatale anche per me oltre che per loro. Salvo che poi Stuart Murdoch solista non si inventi qualcosa, ma anche di questo mi vergogno un po’ e l’unica cosa che manca al quadretto è che io abbia un figlio adolescente che possieda soltanto i loro dischi e che sia un integralista nei confronti di qualsiasi altra musica, come certi miei coetanei lo erano stati brandendo le loro collezioni di dischi o meglio le discografie dei Pink Floyd o dei Queen dei genitori comprensive di costosissimi picture disc ancora intonsi nella loro confezione originale tanto oltre all’ellepì avevano anche i cd. Come se non bastasse ciò, lo stesso nome di Trevor Horn alla produzione per settimane ha ballonzolato nelle mie riflessioni tra le voci “boccata d’ossigeno” e “numero da circo”, perché un fan nonostante poi ci caschi sempre valuta, pensa, giudica anche se poi non ha forse il coraggio di ammettere che, nell’ottica dell’entrata in una storia di non so ben che cosa, sarebbe stato meglio fermarsi dopo The Boy With The Arab Strap. Se solo si fossero fermati lì (e ci avesero mandato comunque sottobanco tutte le nuove canzoni).
Dear Catastrophe Waitress poi è arrivato e noi fan siamo contenti. Ha già subito un cambiamento nell’ordine delle canzoni rispetto al cd promozionale e io preferivo la successione precedente. È un disco più lungo rispetto agli standard belliesebastiani e nella versone definitiva pare che verrà tagliata una delle canzoni circolate finora, (I Believe In) Travellin’ Light. Per la prima volta sulla copertina di un loro album (gli EP in questo caso non valgono) sono presenti un piatto di spaghetti e soprattutto i componenti del gruppo (orrore, ci hanno traditi, dopo i singoli estratti e questo cos’altro, i remix?): Amazon attribuisce copertine diverse al cd e al vinile, monocolori come sempre eppure troppo vicine ai colori dei precedenti dischi. Io preferisco quella con la cameriera imbronciata. Io preferisco la cameriera, sapete mica chi sia?
La prima canzone che ho ascoltato è stata Stay Loose che sul disco invece è l’ultima. Quando ho letto di Horn ho pensato che lo avessero chiamato per un disco che avesse lo spirito di Stay Loose, che riprendesse quella tentazione inesplorata di Electronic Reinassance presente su Tigermilk. I classici elementi sarebbero stati straniati dalla cornice, organetti e chitarre vecchia maniera su nuove (per loro) soluzioni ritmiche e voci devo-lute quel poco che non li facesse sembrare la versione hipster di Madonna che incontra Mirwais. Trevor Horn però non si è occupato di questo, anche se qui e là le zanzarine o gli xilofoni della Chicco non mancano. Il produttore non si è occupato nemmeno poi tanto di ripulire il suono dei B&S: lontani sono i tempi in cui si sentivano vezzosamente gli strusci delle dita sulle corde (come mi mancano) e persino le voci schiarite, il fruscio di fogli di carta su cui venivano letti i testi o l’apertura a strappo della custodia di una chitarra. Il compito di Horn è stato dosare la massimalità degli arrangiamenti, insieme necessità e punto debole della loro ultima produzione, e se solo ci penso mi sembra che come proposito sia simile a scegliere come dietologo il mostro di Milwaukee. Eppure non è andata male e se violini e derivati sembrano più svolazzanti del solito, i fiati vengono usati in maniera diversa e volutamente straniante, ora introducendo ora staccando, con funzioni non necessariamente di prima linea melodica rispetto ai soliti flauti e trombe marchiodifabbrica.
Trevor Horn non ha poi avuto nessuna influenza sulla scrittura delle canzoni, visto che la gran parte di esse era già nota ai frequentatori dei concerti e delle esibizioni radiofoniche della band. Addirittura Lord Anthony, uno dei classici dal vivo finora inediti, risaliva alla metà degli anni Novanta. Parlando di scrittura il particolare che più mi ha colpito è che Dear Catastrophe Waitress è un disco Murdoch-centrico come non accadeva dai tempi di If You’re Feeling Sinister. Isobelle Campbell ha lasciato il gruppo. Sarah Martin prende la scena completamente per fortuna soltanto per metà di Asleep On A Sunbeam, prima che la canzone sia salvata dalla sua esilità da Stuart. Stevie Jackson, che pure mi era piaciuto altrove, in questo disco tranne che nella debole Roy Walker è più che altro seconda voce: se poi si aggiunge che Step Into My Office dal vivo era cantata da lui e che la canzone tagliata era sua, perdono di fondamento le voci secondo cui Murdoch gli avrebbe ceduto il controllo del gruppo prima della sua uscita per una carriera solista. La perdita di fiducia nella formula mista, riuscita solo nel primo tentativo di The Boy With The Arab Strap, ha avuto come conseguenza un minor numero di riempitivi e una maggior compattezza che fanno funzionare DCW come disco in maniera migliore dello schizofrenico Fold Your Hands… o del brodo allungato di Storytelling.
Passando alle singole canzoni quella che amo di più è Lord Anthony, che sbuca dal passato e ha un’orchestra più trattenuta (ma non troppo) rispetto al resto del disco, ma soltanto perché nemmeno Trevor Horn ha avuto il coraggio di giocare troppo con la delicatezza di questo pezzo. Sentendola mi chiedo fino a quando non sarà patetico cantare/sentire canzoni come queste invece di concedersi una sana crisi di mezza età, saltando a piè pari i problemi del non essere ancora trentenni e del non essere più ventenni. Subito dopo la segue (anche se nel disco la precede in una sorta di malefico uno-due) Wrapped Up In Books che sarà anche tipica nel suo movimento e nel testo, ma che sorprende con quegli ottoni durante la pausa ritmica. Tornando all’ordine di ascolto, Step Into My Office riprende in ambito aziendale l’attitudine degli ultimi EP e si introduce con un gioco ritmico tra batteria e macchina da scrivere. Dear Catastrophe Waitress è il parco giochi di Horn che schiera archi testosteronici, trombette sguaiate e plink plonk di xilofono. Gli anni Settanta di If She Wants Me, ascoltate il falsetto di Murdoch e guardate il suo colletto alla Sandro Ciotti per credere, sembrano un’estremizzazione ordinata di Big John Shaft da Storytelling. Di Piazza, New York Catcher già si è parlato, ma si potrebbe dire anche che sembra un tributo a Simon & Garfunkel, così come I’m A Cuckoo, a parte trombe, cori, voce impostata e bzzz ricorda The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy (I’d rather be in Tokyo / I’d rather listen to Thin Lizzy-oh). Anche You Don’t Send Me ricorda cose già dal titolo e If You Find Yourself Caught mi piace alla maniera svergognata in cui mi piacciono gli Abba. Forse alcune di queste canzoni non piaceranno, almeno sulle prime, a chi già non ha accolto bene gli ultimi EP I’m Waking Up To Us o Jonathan David, ma diversi di questi pezzi crescono con gli ascolti a patto di apprezzare un approccio più divertito e meno intimista. Da valutare sulla lunga distanza.