La mia mente piena di cose, piena di viti, cacciaviti, piena di chiodi
Aria, in ogni angolo della mia stanza io ti sto cercando
Aria, nei labirinti della mia mente io ti sto inseguendo
Alan Sorrenti. Quello dei figli, delle stelle, degli amori dati, delle uniche donne, delle giapponesi francesi e delle spiagge paradisiache. Poi ascolto Aria, 1972. È il suo primo disco e quando finisce Vorrei Incontrarti ci si chiede perché. Il primo pensiero è voglia di successo e soldi facili, poi nell’ordine attacco d’improvvisa follia, morte e sostituzione con sosia, presa per il culo dalla durata decennale, fratello gemello genio del male. Scopro invece che dopo il secondo disco iniziò a non arrivarci più con la voce e per uno che veniva accostato a Tim Buckley, non del tutto correttamente viste le differenze non solo nelle sfumature (una su tutte: Sorrenti non si poteva avventurare sulle tonalità basse), per uno che con la voce stupiva e incantava deve essere stato un dramma, fatto anche di contestazioni e lanci di bottiglie ai concerti. Eppure nemmeno questa versione mi convince dopo l’ascolto di Aria, a meno che non sia tutto frutto di follia, Aria, la svolta, io che vi parlo di Alan Sorrenti.
Sul vinile il lato A era occupato interamente dal pezzo che dà il titolo al disco, quello che che comincia col vento con le chitarre che introducono altre chitarre che introducono tastiere che introducono vocalizzi acuti di Sorrenti stile balena ferita alla Sigur Rós, che anche sotto quell’aspetto non hanno inventato niente. Aria parla per venti minuti di una donna o di altro, non importa. Cogliere ingenue metafore come Aria = ossigeno = musica non mi interessa, preferisco pensare che tutto questo sia dedicato alla groupie di una sera. Le immagini e i riferimenti visivi tipici del rock progressivo nel mio caso sfuggono alla convenzionalità perché non ho mai frequentato il genere e mi sembrano elementi surreali ed eccessivi. Trovo tutto surreale ed eccessivo, debole: un tizio che vocalizza per venti minuti, il testo che parla del sesso di una sera evocando principesse in carrozza che probabilmente già indossavano pantaloni a zampa d’elefante e poi la musica, anche hammond soft-porno e persino un inserto spagnoleggiante che ti chiedi se la principessa in carrozza, e non si parla di treni, si trovasse a Pamplona e se Alan Sorrenti fosse salito su un tavolo con le nacchere e la voce vestita da baffuta ballerina di flamenco. Poi prendo tutto insieme e l’effetto è opposto, un senso di allucinazione senza pause. Quello che separa la sezione ritmica e la chitarra viene cucito dalle tastiere, dal violino e dalla voce di Sorrenti. La voce di Sorrenti, che non sembra un ridicolo esercizio di stile perché non te ne dà il tempo, come il violino di Jean Luc Ponty, collaboratore di Zappa e della Mahavisnu Orchestra, non dà il tempo di riflettere sul suo virtuosismo ed è un bene visto che vado poco d’accordo coi virtuosismi. Aria mi assalta come ascoltatore insomma in maniera pre-critica grazie al suo intreccio che rende affascinanti millecentonovantatre movimenti di lancetta privi di un centro che non siano quelle quattro lettere e persino vocali che durano dieci secondi, toni, semitoni, infratoni pitchati (vero Jonsi?) e quello che di più atomico si irraggiunge nella modulazione trattata delle corde vocali (scusate la ripetizione).
Aria ha anche un lato B che contiene tre canzoni dalla durata più concisa, che qualcuno ha definito emanazioni di quanto sentito nella suite (scorrete il link fino a “La nuova aria di Alan Sorrenti”) e che nella loro durata ridotta riprendono le precedenti scelte all’interno di forme e durate più simili a quelle della fruibilità di oggi. Tralasciando la conclusiva Un Fiume Tranquillo, troppo vicina al rock progressivo per colpirmi e di cui si potrebbe pure fare a meno, e La Mia Mente, che per tutta la sua durata contrappone melodie lineari ed esecuzioni sghembe, la vera gemma è Vorrei Incontrarti.
Vorrei Incontrarti sembra semplice anche se non lo è, ancora più immediata di Aria. Se Aria sceglie la via della solidità e dell’espressione per descrivere la fragilità, Vorrei Incontrarti si trattiene ma non si concede protezioni, mostra nude le vene che non sono più fiumi inarrestabili tra le rocce. Il bisogno dell’altra è in questo caso bisogno dell’indecisione (“vorrei”) e ci si chiede il perché di questa indecisione quando quegli arpeggi suonano tutt’intorno: i “ma” ci sono, sono ancora l’incertezza (delle proprie reazioni), i nomi delle sconosciute di cui riconosciamo il viso e che si aspettano comunque, gli altri che le circondano con una sensazione fobica di soffocamento. Anche qui l’altra (forse) non è soltanto una donna, ma la delicatezza melodica delle ragnatele di chitarra e i soffici effetti elettronici pur nel loro tocco lieve disegnano la corporeità di una figura femminile sullo sfondo, le sue ciglia, i capelli lunghi che si scompigliano quando si volta all’improvviso. La compressione della passione nell’attesa è riassunta dal finale, il tema della canzone ripreso nel più classico dei gesti nervosi e insieme musicali, il tema della canzone fischiettato davanti ad un cancello. Fischiettato mentre si guarda l’orologio (e per questo io non ne porto). Fischiettato mentre ci si allontana, facendo finta di niente.