Never say Never
L’attesa era spasmodica, inutile negarlo. UNKLE, o per meglio dire U.N.K.L.E., aveva tutte le caratteristiche per essere il supergruppo che catturava lo spirito del tempo della mia giovinezza più che un duo con molti ospiti. Forse non tutte le promesse furono mantenute, ma da lì passava molta della musica che mi assorbiva in quei giorni. Pensavo a DJ Shadow tornato a casa dopo il video di Midnight In A Perfect World, il suo eterno fare i conti col passato, le pile di dischi sul pavimento e quella puntina che prima o poi doveva sostiuire. Lavelle era senza faccia, perfetto per quell’immaginario cinematografico e con un pizzico di pelo sullo stomaco, seppur da stomaco di nicchia sotto i riflettori. Newstead dei Metallica l’aveva chiamato sicuramente lui. Un giovane virgulto di nome Badly Drawn Boy era quasi all’esordio insieme ad Alice Temple, ragazza con la voce da vocalist. Mike D e Kool G erano i padrini e Richard Ashcroft aggiungeva alla lista una delle canzoni che ascoltavo nonostante l’antipatia per lui e per quella magrezza così simile alla mia. Thom Yorke mostrava già allora i primi segni della sua disperata fuga dal rock, fermandosi in mezzo alla strada incurante delle auto in corsa come il barbone del video di Rabbit In Your Headlights.
I’m going through changes. Shadow se n’è andato: è stato sostituito da Richard File, uomo delle manopole dietro ai Boredoms e ai South e chissà perché mi aspetto già come sarà il nuovo U.N.K.L.E.. Si chiama Never Neverland (o Never Never Land, non è ancora chiaro) come un disco degli Annihilator, ma James Lavelle ci tiene a dire che il nome è preso dallo studio di registrazione utilizzato. È stato prodotto dall’ex tastierista delle Elastica, cosa che credo sia divertente da vantare in società, ma di cui riesco a valutare poco l’impatto. Azzardo solo un pronostico: secondo me si perderà l’ossatura hip hop di Psyence Fiction, ma non mi è chiaro esattamente dove si andrà a parare.
I’m going through changes. L’intro che apre il disco sembra recitato da Ozzy Osbourne, ma non sono sicuro che sia lui. Sicuro invece è che il campionamento appartenga a Changes dei Black Sabbath. Caspita, devo tornare a giocare al Superenalotto? No, non che segua un disco con chitarroni, ma siamo dalle parti di un connubio bianco tra il rock e l’elettronica con poco spazio per l’esaltazione del giradischi. Invece di impegolarsi nell’ennesimo inno alla frattura digitale, gli U.N.K.L.E. hanno puntato su diverse soluzioni, dalla solidità techno-rock che qualche anno fa univa chi era arrivato dagli opposti lidi della console e della chitarra, fino alla sua controparte lenta e trasognata. Un po’ fuori moda? I pezzi più tirati (il singolo An Eye For An Eye e Safe In Mind con Josh Homme dei Queens Of The Stone Age) pur essendo molto energetici non sono il massimo della freschezza. R.E.I.G.N. con Ian Brown e Mani degli Stone Roses si appiccica alle sinapsi, epperò i suoi violini ormai non rimandano più al cinema ma ai vari Simenon, Hooper e Orbit. In Invasion 3D dei Massive Attack è un po’ più mezzanino che nell’ultimo disco, mentre Brian Eno e Jarvis Cocker incrociano i sintetizzatori nell’ambientale, e anche un po’ anonima suvvia, I Need Something Stronger. Introdotta da una rollata di pianoforte molto U.N.K.L.E. e dalla voce di Graham Gouldman dei 10cc, invece In A State arrischia una battuta dance con cassa in quattro ripresa anche in parte di What You Are To Me che col caldo risulta godibile, anche se a priori non mi sarebbe nemmeno venuto in mente che potesse essere presente nel disco una simile impronta. Le voci maschili al limite del femminile caratterizzano queste due canzoni e percorrono quasi tutto il disco conducendolo alla fine tra la screamadelica Glow e la bellissima ballata conclusiva Inside, dove si arriva anche al falsetto. Impressioni contraddittorie, lo so, ma sono solo i primi ascolti.