Emo-tional land-escape
Tranquilli, niente discussioni su quanto sia emo avere un blog o, peggio, quanto emo sia stato a volte il mio. Non sarebbe emo, non del tutto. Non si parla di emo come genere musicale perché non ho sufficiente conoscenza delle emo-band e perché pare che, dopo la SARS, l’orticaria da sotto-genere-iniziatico sia una delle infezioni più temute secondo le ultime stime di Nexus. Ho già usato qui sopra emo come prefisso, ma non mi addentrerò nella descrizione di come tutto possa essere emo-oriented, soprattutto i testi delle canzoni che più mi piacciono, tirandole magari per i capelli come facevo con Marinella in terza elementare: quando la vedevo passare dalla finestra, le otto meno dieci, scendevo dalle scale di corsa in modo da raggiungerla a metà della strada verso scuola all’inizio della zona non visibile da casa mia, tirarle i capelli, correre un altro po’, girarmi e sorriderle e rivedersi in classe. Poi abbiamo traslocato e non ho più rivisto Marinella. Potrei tentare l’unico approccio possibile per spiegarvi l’emo, ostentando una tragedia emo-tiva in modo sufficientemente trasandato. Be-bop-a-lula, she was my baby. Potrei lamentarmi di come il disco sulla bocca di tutti questa settimana sia la negazione dell’emo. Sarebbe inutile perché se l’emo arrivasse qui non sarebbe più l’emo di una volta ed è solo questione di tempo perché il supplemento o il settimanale del caso se ne accorga cestinando, solo qualora il target lo consenta, l’articolo sull’ageism against thirty-something e quel meraviglioso titolo (The Beaten Generation) che l’insonnia e i quaranta gradi avevano imposto a voi e al titolista. E si spera che il settimanale non sia Oggi, che ha abbandonato noi lettori del Giornale di Sicilia. Facciamo così, lascio sul tavolo l’emo-kit, mi giro un attimo e chi si è visto si è emo-visto.