25.4.03

Love for Love’s Sake

Ora che è arrivato sui grandi giornali e che qualcuno pensa che stroncarlo sia ancora più pheego che sentirlo, cambierà qualcosa per Daniel Johnston? Poco è importato allo stroncatore che fosse proprio lui a volere un disco che suonasse come i suoi idoli, come i Beatles e tutti gli altri, perché no anche i Pistols e i Ramones. Ma non è anche questa una prova della sua consacrazione? Il suo disco è arrivato in mano persino ad uno sfigato che pensa che Daniel Johnston sia una protuberanza del suo boom-box Sanyo da cinquantanove dollari e che forse confonde urgenza e lo-fi, ignorando che quando senti il bisogno di fermare qualcosa, basta tutto, persino un fazzoletto di carta usato o il palmo della mano.
La storia di Daniel Johnston è lunga e piena di colpi di scena e probabilmente ve l’hanno raccontata già altri: tutti coloro che ne parlano dosano gli aneddoti, quelli più minimi, dalle cassette registrate per le ragazze che lo consideravano un soggettone alle sue peripezie fisiche, secondo lo spazio a disposizione e la voglia più o meno forte di farne un personaggio. Quello che per altri sarebbe invasione della privacy, in lui è elemento che non riesci a separare dalla sua poetica, se non altro perché ritorna nelle sue canzoni, nelle sue parole e anche nel timbro rotto della voce, solcato da quel sollievo quasi felice che si prova alla fine di un pianto.
E poi ci sono le canzoni di questo disco. Più che di amore parlano di amore per l’amore, della sua duplice natura di malattia e medicina, della liberazione dall’ossessione dell’assenza. Mark Linkous degli Sparklehorse ha ricevuto pezzetti di cristallo brillanti e taglienti e si assume una grande responsabilità fin dall’inizio, fin da Now: sente il bisogno di sogni realizzati, di una tranquillità finalmente raggiunta nella fuga dell’arte. Daniel suona meno terreno, sembra guardarci dall’alto, mentre si allontana. Non sempre è così e allora riaffiorano momenti splendidamente ossessionanti, come una Love Enchanted dove la mente di Daniel vaga mentre ascolta Hotel California. Altrove, dove la musica si fa più rock, diventa un vecchio amico saggio che ci racconta storie ormai passate da cantare in coro a squarciagola davanti ad una birra, anche se lui non può berla. Ogni canzone poi ha i suoi piccoli particolari da amare, come lo scombinato disordine finale di Living It For The Moment. Fear Yourself è già tra i dischi dell’anno.
E grazie a Quarky e Polaroid.