Psycho Candy
Partiamo dalla pupaccena. Se non siete di Palermo forse non sapete nemmeno cos’è. Nelle memorie di ogni bambino palermitano i pupi ri zuccaru superano per potere evocativo tutti gli altri dolci tipici. La mattina della festa dei morti era segnata dalla ricerca delle statue dei nostri sogni. Puro zucchero che si faceva forma. Accese da colori sempre eccessivi e ornate da nastri di carta lucida, troneggiavano in alto sulle vetrine dei mobili come trofei, sempre troppo barocche per essere semplice arredamento. Eppure i primi giorni erano un dramma proprio per questo motivo. L’esposizione ritardava i nostri piani di conquista: ho sempre pensato fosse una scusa, ma all’inizio il consumo dei pupi era regolato da un rituale che ne preservava l’apparenza. Alla fine dei pasti nostra madre staccava dal retro piccoli pezzi in modo da mantenere l’aspetto frontale e salvaguardare i nostri denti, per quanto possibile. Il retro in genere non era colorato e questo bastava a farci pensare che avesse un sapore diverso rispetto al resto.
La vera festa cominciava quando il feticcio veniva distrutto in mille pezzi. Prima o poi capitava e anche questo avveniva come un rito, sotto i colpi dei nostri pugni chiusi. Nascosto in sacchetti di plastica da qualche parte in uno dei mobili, prima o poi veniva scoperto e diventava vittima delle nostre spedizioni a tutte le ore del giorno. Al sole dell’estate di San Martino o al buio, dopo essersi lavati i denti ed avere indossato il pigiama per andare a dormire. Ricordo tutti i particolari: i pezzetti di carta che non riuscivo a staccare, il verde che aveva un sapore diverso dal rosso e le dita tinte dal colore che si scioglieva appiccicoso mentre masticavo per fare più in fretta. L’ultimo pezzo, come il primo, si doveva mangiare a tavola davanti a tutti. Ancora una volta per mantenere le apparenze. Ubriachi di dolcezza, ignoravamo i significati simbolici che celavano le pupaccene.
Recupero soltanto ora “Hate” dei Delgados. È uscito l’anno scorso, ma per un motivo o per l’altro ho rimandato l’incontro con l’ultimo disco degli ex proprietari della Chemikal Underground, presso la quale hanno mosso i primi passi Mogwai e Arab Strap. Ho sempre ammirato nei Delgados il retrogusto delle loro ariose costruzioni melodiche. E poi Emma Pollock. A questo aggiungo che la produzione è stata ancora una volta affidata a Dave Friedmann, bassista dei Mercury Rev e teorizzatore in suoni di una via pop alla psichedelia: non più suoni dilatati dall’LSD, né forsennate progressioni estatiche. Zucchero. Come quello del caramello lunare di “All Is Dream” dei Mercury Rev o come lo zucchero filato rosa di Yoshimi dei Flaming Lips. “Hate” invece è pupaccena, architettura solida e dolce dai sottintesi opposti.
Il punto di forza del disco non è tanto la produzione. Certo Friedmann ricopre di porcellana Emma Pollock e la sua voce. La priva di spigoli e di erre in cerca di una bellezza tonda e scintillante. La circonda di carillon e pianoforti in miniatura. Ce la mostra come una bambola seduta sul divano di un salotto. I suoi battiti di ciglia sono rifratti nel pizzicato dei violini, mentre gli archi si arricciano verso l’alto come boccoli biondi. Splende anche quando è in secondo piano rispetto ad Alun Woodward, che da solo oscilla tra il pestifero e lo svagato. A parte questo il lavoro di Friedmann rischiava di ipotecare tutto con scelte orchestrali che potevano risultare soffocanti per la loro magniloquenza.
I Delgados invece non soccombono. Sono un lupo che si veste da agnello, come altri hanno notato. Assecondando con le loro nursery rhymes l’aria infantile di certi passi, occultano soltanto nelle parole stille di cinismo e oscurità. Le semplici melodie circolari ascendono come inni già prima che l’orchestra le prenda per mano. Il continuo enjambement della voce di Emma rispetto alla musica è danza, soprattutto in “Woke From Dreaming”. “All You Need Is Hate” nella sua gioia cinica e perculante diventa inno liberatorio. “Child Killers” è una sognante ninna nanna di paure che termina su una ritmica inizialmente irregolare come una dentatura da latte. Anche nel finale del disco, quando la massa sonora si fa epica e quasi barocca, i Delgados cantano a squarciagola il ritornello, sovrastando l’orchestra come un gruppo di avvinazzati urlanti che agita verso l’alto il proprio boccale. Anche se conteneva soltanto acqua e zucchero.