L’inaspettato Think Tank
Ho deciso di parlare adesso di Think Tank dei Blur, perché è in forte crescita e vorrei evitare in seguito di essere eccessivo nei miei giudizi. I Blur mi sono sempre piaciuti, anche se tutto sommato non hanno mai detto niente di veramente nuovo. Grande colpa per molti, ma a me bastava sentire The Universal. Mi sono piaciuti fin da Modern Life Is Rubbish, fin da quando c’era il brit pop e la famigerata contrapposizione con gli Oasis. Non capivo cosa avessero in comune col carrozzone e coi fratelli Gallagher, ma abbiamo bisogno di etichette e allora ci siamo adattati, anche alla guerra dei singoli e degli album. Persa, ma poi alla fine vinta e non certo per quell’aura lo-fi degli ultimi dischi, che anzi sapeva quasi di scimmiottamento.
Le premesse a TT sono diverse, ma agli inglesi piace sottolineare soprattutto il dissidio interno, così rockeroll. Noi che siamo abbastanza cresciuti cerchiamo di rimettere le cose al loro posto. Graham Coxon era considerato da molti il propulsore interno della svolta di crescita, ma ascoltando il nuovo disco ci si chiede se non si sia stati un po’ cattivi con Albarn. Quando il chitarrista uscì dal gruppo a settembre, la versione ufficiale era quella di mal di pancia per un Albarn che traghettava i Blur su lidi dance, quasi plagiato dai geni del male Norman Cook (Fatboy Slim) e William Orbit. A posteriori, ascoltando come i contributi dei due siano minimi, integrati e soprattutto non seguano quella direzione , viene da pensare che i motivi siano altri. Albarn ha imposto quello che voleva e forse già questo bastava a far saltare tutto.
Disco dunque di Damon Albarn in primo luogo. C’è tutto il passato dei Blur dentro, ma c’è anche voglia di cambiare. C’è molto del suo presente, dall’etnica meno ovvia di Mali Music al dub bianco suggerito dalle frequentazioni di 3D e Dan ‘The Automator’ Nakamura. Ci sono un sassofonista assunto in pianta stabile e richiami non troppo velati ai Clash e ai Talking Heads. Molta carne al fuoco su cui hanno messo le mani soprattutto Albarn in prima persona e Ben Hillier (Elbow, Tom McRae). Gran parte del lavoro con William Orbit è stato buttato via ed è rimasto il suo discreto contributo solo in Sweet Song. A Norman Cook sono attribuite solo Crazy Beat, il singolo dell’estate, e Good Song, anche se si dice che abbia suggerito qualcosa per alcune delle altre tracce. Albarn sceglie quindi la strada di misurare la sua personalità a costo di fare saltare il gruppo.
Think Tank inizia con Ambulance: non c’è niente di cui spaventarsi, baby. Il basso rotante è ritmato dal sassofono sullo sfondo. Batterie e chitarre fredde e acide in lontananza. Out Of Time è una grande canzone e si capisce perché Coxon non ci sia più: l’assolo dell’Andalusian String Group è una calda e languida amante mediterranea e questo era forse troppo anche per lui. Crazy beat! Appena l’inizio è electro, poi Cook tira fuori tutto il suo amore per il punk. Yeah Yeah Yeah. Good Song è la classica ballata da sfigato che Albarn non si lascia mai scappare. Tutto molto ordinato, tutto al suo posto. On The Way To The Club comincia come una canzone dei Massive Attack dei tempi d’oro: citazione da Prince + basso cosmico + crescendo intimista. Nel finale si sfibra e si sdoppia in maniera vagamente dispersiva. Tra il blues iniziale e il successivo funk, Brothers & Sisters si aggira dalle parti di 13. Caravan è bassa fedeltà desertica che viene trascinata sconfitta verso non si sa bene cosa. Un minuto: oltre l’ironico corporate-punk di Song 2 c’è We’ve Got A File On You, punk volutamente sciocco e paranoico, ma ci piace. Moroccan Peoples Revolutionary Bowls Club e rimbalzo come un pallone da calcio e giro su me stesso come una mirrorball. Poi arriva il signor Orbit, fa poco, ma si fa notare molto: Sweet Song vive di quel pianoforte ovattato, del crescendo di luci sul basso e del feed back finale. Citazione lennoniana nel testo. Jets è la sfida del disco, riassume tutti gli elementi e alla sua fine sovrappone assoli di sassofono e banjo, percussioni tropicali e da-funk, chitarre trattate e l’ossessivo “Jets are like comets at sunset”. La delicatessen upbeat dei cigolii in levare di Gene By Gene sembra citare i Clash in contesto spiaggesco. Il lento triste di Battery In Your Leg dovrebbe essere il finale, definitivo nelle sue esplosioni di supernova per chitarra liquida. C’è invece ancora spazio per una traccia fantasma intitolata My White Noise, ironicamente l’unica veramente dance al punto di sembrare il remix di un loro vecchio pezzo: testo storico, “Being English isn't about hate, it's about disgust, we're all disgusting”, cantato da Phil Daniels quello di Parklife. Albarn avrebbe voluto chiamarlo Darklife.